Dove ti iscrivo il pupo?
Dove non c'è il Latino.
Articolo di A. D'Avenia
27 Aprile 2013
I dati delle iscrizioni alle scuole
superiori parlano chiaro: cala la richiesta di formazione umanistica
(classico e scientifico tradizionale) e cresce quella applicata e
spendibile (lingue e scientifico, nella versione scienze applicate o
tecnologico , cioè senza latino).
Questo riguarda quasi il 50% degli iscritti.
L’altra metà continua a guardare alla formazione professionale e tecnica
che, per fortuna, rimangono forti (se solo le curassimo di più invece
di farne troppo spesso un contenitore di frustrazioni sociali…). Le
famiglie italiane e i loro figli si orientano quindi verso ciò che
apparentemente dà più certezza di lavoro e quindi di futuro. Non tutti i
mali vengono per nuocere. I ragazzi in questa epoca hanno bisogno di
maggiore rigore logico. La loro relazione con la realtà è emotiva e
reattiva.
L’abitudine al ragionamento astratto,
alla logica matematica, potrebbe aiutare ad acquisire maggior raziocinio
e dominio di sé. Potrebbe. Resta chiaro che la formazione umanistica è
in declino, come la cultura occidentale. I licei classici sono spesso
luoghi autoreferenziali in cui ci si lamenta del fatto che i ragazzi non
leggono più, non si interessano più, lo schermo del loro smartphone è
stranamente più interessante delle declinazioni… Prevale la geremiade
senza soluzione. Per carità, la geremiade ha la sua ragion d’essere, ma
viene spesso e giustamente da un docente attempato che non ha stipendio e
voglia sufficienti a cercare soluzioni totalmente o parzialmente nuove.
E non lo fa perché le soluzioni nuove –
diciamocelo chiaro – richiedono più lavoro: più ore di lavoro. Se la
scuola si salva è per il volontariato di quei docenti (di qualunque età)
che amano lavoro e ragazzi e in qualche modo riescono a realizzare
queste nuove pratiche in modo individuale o a piccoli gruppi, ma non
riescono poi a farle diventare pratiche virtuose di sistema. Perché?
Perché sono oggetto di invidia, pettegolezzo, in quanto minaccia per il
quieto e pigro vivere generale. Non basterebbe chiedere ai professori
migliori cosa e come fanno?
Invece continuiamo a fare le nostre
lezioni di greco, latino, italiano come si facevano vent’anni fa. Come
le ho ricevute io, e allora andavano benissimo. Ma vent’anni fa la
motivazione allo studio era implicita: realizzarsi, ripagare i genitori
dei loro sacrifici e aspettative, rispettare l’autorità dei professori.
Oggi il materiale umano è cambiato. La motivazione non è più implicita,
ma va riconquistata con strategie diverse. Alla maggior parte dei
ragazzi basta essere promossi, non importa ottenere voti alti, non
servono neanche più per le facoltà a numero chiuso. Troppe le
distrazioni e gli interessi conflittuali. Esaurite le motivazioni che
portavano a certe professioni. È anche mutata la neurofisiologia del
cervello: la logica aristotelica dei nessi causa-effetto è sovrastata
dalla para-logica, basata su immagini ed emozioni più che su nessi
causali.
Alle famiglie stesse sembra interessare
relativamente che il figlio vada bene a scuola. L’importante è che non
soffra troppo e trovi la facoltà giusta, e magari impari qualcosa che lo
aiuti ad avere un lavoro. Il latino a cosa vuoi che serva? Eppure
niente come il latino allena al problem solving, più della
matematica, se volessimo fermarci a motivazioni puramente funzionali. Ma
non è per questo che si studia il latino, piuttosto impara due lingue
straniere alla perfezione (due lingue vive non valgono una morta?). Ma
quella del latino è un’altra storia, su cui nessuno sta ragionando e che
quindi finirà come sembra inevitabile finisca: male, perdendo uno dei
fiori all’occhiello del nostro curriculum.
Il punto è che la prevalenza della
geremiade blocca le nuove soluzioni, che devono essere pensate e
condivise. Spesso le soluzioni circolano tra le nuove leve di
insegnanti, ma per un giovane di 20-30 anni oggi entrare nella scuola è
impossibile, a meno che non si tratti di scuola non statale. L’unico
criterio meritocratico della scuola italiana attualmente è l’anzianità, e
non credo sia più tollerabile, soprattutto a fronte di risultati che
lasciano indifferenti solo perché non toccano borse e spread. Attenzione
non sono un “rottamatore” né un “cinquestelle” dell’insegnamento: dico
solo che l’anzianità non è criterio necessario e sufficiente per essere
buon insegnante, così come non lo è essere giovani. Ho tanti colleghi
“diversamente giovani” che sono maestri da cui vado ad imparare come si
insegna chiedendo aiuto e consiglio.
La crisi economica che ci troviamo ad
affrontare è una crisi antropologica. È stata provocata da manager
sconsiderati capaci di creare una bolla finanziaria dodici volte
maggiore del Pil mondiale. Erano così bravi ad applicare le loro scienze
che si erano dimenticati degli altri uomini.
Forse un po’ più di anima non
guasterebbe. La formazione umanistica insegna a non agire solo per
profitto, ma anche per gli altri. Famiglie e ragazzi anelano a un lavoro
e giustamente cercano il modo più rapido per raggiungerlo. Ma non ho
letto tra i punti irrinunciabili delle varie parti politiche qualcosa
che riguardi il rinnovamento della scuola. Non interessa. La politica
oggi è periferia dell’economia, eppure riguarda il bene comune: e, per
realizzarlo, bisognerebbe prima capire cosa è il ‘bene’ e quando è
‘comune’. Così l’economia ritornerebbe parte della politica e dell’uomo,
e non viceversa.
La scuola italiana ha un curriculum
capace di affrontare la crisi dell’anima dell’Occidente, ma chi avrà
forza, tempo e coraggio per rinnovarla di fronte alle sfide attuali,
senza limitarsi a ‘riorganizzarla’ o rifornirla di Lim e ipad?
Non basta una mano di vernice, ci vogliono motori nuovi, uno scafo ribattuto, un porto chiaro.
Versione riveduta dell’articolo apparso su Avvenire, 27 aprile 2013
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