Vi ringrazio
di questo invito, ringrazio il Presidente delle sue parole. Ringrazio i membri
della Presidenza… Un giornale diceva, dei membri della Presidenza, che “questo
è uomo del Papa, questo non è uomo del Papa, questo è uomo del Papa…”. Ma la
presidenza, di cinque-sei, sono tutti uomini del Papa!, per parlare con questo
linguaggio “politico”… Ma noi dobbiamo usare il linguaggio della comunione. Ma
la stampa a volte inventa tante cose, no?
Nel
preparami a questo appuntamento di grazia, sono tornato più volte sulle parole
dell’Apostolo, che esprimono quanto ho – quanto abbiamo tutti – nel
cuore: “Desidero ardentemente vedervi per comunicarvi qualche dono spirituale,
perché ne siate fortificati, o meglio, per essere in mezzo a voi confortato
mediante la fede che abbiamo in comune, voi ed io” (Rm 1, 11-12).
Ho vissuto
quest’anno cercando di pormi sul passo di ciascuno di voi: negli incontri
personali, nelle udienze come nelle visite sul territorio, ho ascoltato e
condiviso il racconto di speranze, stanchezze e preoccupazioni pastorali;
partecipi della stessa mensa, ci siamo rinfrancati ritrovando nel pane spezzato
il profumo di un incontro, ragione ultima del nostro andare verso la città
degli uomini, con il volto lieto e la disponibilità a essere presenza e vangelo
di vita.
In questo
momento, unite alla riconoscenza per il vostro generoso servizio, vorrei
offrirvi alcune riflessioni con cui rivisitare il ministero, perché si conformi
sempre più alla volontà di Colui che ci ha posto alla guida della sua Chiesa.
A noi guarda
il popolo fedele. Il popolo ci guarda! Io ricordo un film: “I bambini ci
guardano”, era bello. Il popolo ci guarda. Ci guarda per essere aiutato a
cogliere la singolarità del proprio quotidiano nel contesto del disegno
provvidenziale di Dio. E’ missione impegnativa la nostra: domanda di conoscere
il Signore, fino a dimorare in Lui; e, nel contempo, di prendere dimora nella
vita delle nostre Chiese particolari, fino a conoscerne i volti, i bisogni e le
potenzialità. Se la sintesi di questa duplice esigenza è affidata alla
responsabilità di ciascuno, alcuni tratti sono comunque comuni; e oggi vorrei
indicarne tre, che contribuiscono a delineare il nostro profilo di Pastori di
una Chiesa che è, innanzitutto, comunità del Risorto, quindi suo corpo e,
infine, anticipo e promessa del Regno.
In questo
modo intendo anche venire incontro – almeno indirettamente – a quanti si
domandano quali siano le attese del Vescovo di Roma sull’Episcopato italiano.
1. Pastori
di una Chiesa che è comunità del Risorto.
Chiediamoci,
dunque: Chi è per me Gesù Cristo? Come ha segnato la verità della mia storia?
Che dice di Lui la mia vita?
La fede,
fratelli, è memoria viva di un incontro, alimentato al fuoco della Parola che
plasma il ministero e unge tutto il nostro popolo; la fede è sigillo posto sul
cuore: senza questa custodia, senza la preghiera assidua, il Pastore è esposto
al pericolo di vergognarsi del Vangelo, finendo per stemperare lo scandalo
della croce nella sapienza mondana.
Le
tentazioni, che cercano di oscurare il primato di Dio e del suo Cristo, sono
“legione” nella vita del Pastore: vanno dalla tiepidezza, che scade nella
mediocrità, alla ricerca di un quieto vivere, che schiva rinunce e sacrificio.
E’ tentazione la fretta pastorale, al pari della sua sorellastra,
quell’accidia che porta all’insofferenza, quasi tutto fosse soltanto un peso. Tentazione
è la presunzione di chi si illude di poter far conto solamente sulle proprie
forze, sull’abbondanza di risorse e di strutture, sulle strategie organizzative
che sa mettere in campo. Tentazione è accomodarsi nella tristezza, che
mentre spegne ogni attesa e creatività, lascia insoddisfatti e quindi incapaci
di entrare nel vissuto della nostra gente e di comprenderlo alla luce del
mattino di Pasqua.
Fratelli, se
ci allontaniamo da Gesù Cristo, se l’incontro con Lui perde la sua freschezza,
finiamo per toccare con mano soltanto la sterilità delle nostre parole e delle
nostre iniziative. Perché i piani pastorali servono, ma la nostra fiducia è
riposta altrove: nello Spirito del Signore, che – nella misura della nostra
docilità – ci spalanca continuamente gli orizzonti della missione.
Per evitare
di arenarci sugli scogli, la nostra vita spirituale non può ridursi ad alcuni
momenti religiosi. Nel succedersi dei giorni e delle stagioni,
nell’avvicendarsi delle età e degli eventi, alleniamoci a considerare noi
stessi guardando a Colui che non passa: spiritualità è ritorno
all’essenziale, a quel bene che nessuno può toglierci, la sola cosa veramente
necessaria. Anche nei momenti di aridità, quando le situazioni pastorali si
fanno difficili e si ha l’impressione di essere lasciati soli, essa è manto
di consolazione più grande di ogni amarezza; è metro di libertà dal
giudizio del cosiddetto “senso comune”; è fonte di gioia, che ci fa
accogliere tutto dalla mano di Dio, fino a contemplarne la presenza in tutto e
in tutti.
Non
stanchiamoci, dunque, di cercare il Signore – di lasciarci cercare da Lui
–, di curare nel silenzio e nell’ascolto orante la nostra relazione con Lui.
Teniamo fisso lo sguardo su di Lui, centro del tempo e della storia; facciamo
spazio alla sua presenza in noi: è Lui il principio e il fondamento che avvolge
di misericordia le nostre debolezze e tutto trasfigura e rinnova; è Lui ciò che
di più prezioso siamo chiamati a offrire alla nostra gente, pena il lasciarla
in balìa di una società dell’indifferenza, se non della disperazione. Di Lui –
anche se lo ignorasse – vive ogni uomo. In Lui, Uomo delle Beatitudini – pagina
evangelica che torna quotidianamente nella mia meditazione – passa la misura
alta della santità: se intendiamo seguirlo, non ci è data altra strada.
Percorrendola con Lui, ci scopriamo popolo, fino a riconoscere con stupore e
gratitudine che tutto è grazia, perfino le fatiche e le contraddizioni del
vivere umano, se queste vengono vissute con cuore aperto al Signore, con la
pazienza dell’artigiano e con il cuore del peccatore pentito.
La memoria
della fede è così compagnia, appartenenza ecclesiale: ecco il secondo tratto
del nostro profilo.
2. Pastori
di una Chiesa che è corpo del Signore
Proviamo,
ancora, a domandarci: che immagine ho della Chiesa, della mia comunità
ecclesiale? Me ne sento figlio, oltre che Pastore? So ringraziare Dio, o ne
colgo soprattutto i ritardi, i difetti e le mancanze? Quanto sono disposto a
soffrire per essa?
Fratelli, la
Chiesa – nel tesoro della sua vivente Tradizione, che da ultimo riluce nella
testimonianza santa di Giovanni XXIII e di Giovanni Paolo II – è l’altra grazia di cui
sentirci profondamente debitori. Del resto, se siamo entrati nel Mistero del
Crocifisso, se abbiamo incontrato il Risorto, è in virtù del suo corpo, che in
quanto tale non può che essere uno. E’ dono e responsabilità, l’unità:
l’esserne sacramento configura la nostra missione. Richiede un cuore spogliato
di ogni interesse mondano, lontano dalla vanità e dalla discordia; un cuore
accogliente, capace di sentire con gli altri e anche di considerarli più degni
di se stessi. Così ci consiglia l’apostolo.
In questa
prospettiva suonano quanto mai attuali le parole con cui, esattamente
cinquant’anni fa, il Venerabile Papa Paolo VI – che avremo la gioia di
proclamare beato il prossimo 19 ottobre, a conclusione del Sinodo Straordinario
dei Vescovi sulla famiglia – si rivolgeva proprio ai membri della Conferenza
Episcopale Italiana e poneva come “questione vitale per la Chiesa”
il servizio all’unità: “E’ venuto il momento (e dovremmo noi dolerci di ciò?)
di dare a noi stessi e di imprimere alla vita ecclesiastica italiana un forte e
rinnovato spirito di unità”. Vi sarà dato oggi questo discorso. E’ un gioiello.
E’ come se fosse stato pronunciato ieri, è così.
Ne siamo
convinti: la mancanza o comunque la povertà di comunione costituisce lo
scandalo più grande, l’eresia che deturpa il volto del Signore e dilania la sua
Chiesa. Nulla giustifica la divisione: meglio cedere, meglio rinunciare –
disposti a volte anche a portare su di sé la prova di un'ingiustizia – piuttosto
che lacerare la tunica e scandalizzare il popolo santo di Dio.
Per questo,
come Pastori, dobbiamo rifuggire da tentazioni che diversamente ci sfigurano:
la gestione personalistica del tempo, quasi potesse esserci un benessere a
prescindere da quello delle nostre comunità; le chiacchiere, le mezze verità
che diventano bugie, la litania delle lamentele che tradisce intime delusioni;
la durezza di chi giudica senza coinvolgersi e il lassismo di quanti
accondiscendono senza farsi carico dell’altro. Ancora: il rodersi della
gelosia, l’accecamento indotto dall’invidia, l’ambizione che genera correnti,
consorterie, settarismo: quant’è vuoto il cielo di chi è ossessionato da se
stesso … E, poi, il ripiegamento che va a cercare nelle forme del passato le sicurezze
perdute; e la pretesa di quanti vorrebbero difendere l’unità negando le
diversità, umiliando così i doni con cui Dio continua a rendere giovane e bella
la sua Chiesa…
Rispetto a
queste tentazioni, proprio l’esperienza ecclesiale costituisce l’antidoto più
efficace. Promana dall’unica Eucaristia, la cui forza di coesione genera
fraternità, possibilità di accogliersi, perdonarsi e camminare insieme;
Eucaristia, da cui nasce la capacità di far proprio un atteggiamento di sincera
gratitudine e di conservare la pace anche nei momenti più difficili: quella
pace che consente di non lasciarsi sopraffare dai conflitti – che poi, a volte,
si rivelano crogiolo che purifica – come anche di non cullarsi nel sogno di
ricominciare sempre altrove.
Una
spiritualità eucaristica chiama a partecipazione e collegialità, per un
discernimento pastorale che si alimenta nel dialogo, nella ricerca e nella
fatica del pensare insieme: non per nulla Paolo VI, nel discorso citato – dopo aver definito il
Concilio “una grazia”, “un’occasione unica e felice”, “un incomparabile
momento”, “vertice di carità gerarchica e fraterna”, “voce di spiritualità, di
bontà e di pace al mondo intero” – ne addita, quale “nota dominante”, la
“libera e ampia possibilità d’indagine, di discussione e di espressione”. E
questo è importante, in un’assemblea. Ognuno dice quello che sente, in faccia,
ai fratelli; e questo edifica la Chiesa, aiuta. Senza vergogna, dirlo, così…
E’ questo il
modo, per la Conferenza episcopale, di essere spazio vitale di comunione a
servizio del’unità, nella valorizzazione delle diocesi, anche delle più
piccole. A partire dalle Conferenze regionali, dunque, non stancatevi di
intessere tra voi rapporti all’insegna dell’apertura e della stima reciproca:
la forza di una rete sta in relazioni di qualità, che abbattono le distanze a
avvicinano i territori con il confronto, lo scambio di esperienze, la tensione
alla collaborazione.
I nostri
sacerdoti, voi lo sapete bene, sono spesso provati dalle esigenze del ministero
e, a volte, anche scoraggiato dall’impressione dell’esiguità dei risultati:
educhiamoli a non fermarsi a calcolare entrate e uscite, a verificare se quanto
si crede di aver dato corrisponde poi al raccolto: il nostro – più che di
bilanci – è il tempo di quella pazienza che è il nome dell’amore maturo, la
verità del nostro umile, gratuito e fiducioso donarsi alla Chiesa. Puntate ad
assicurare loro vicinanza e comprensione, fate che nel vostro cuore possano
sentirsi sempre a casa; curatene la formazione umana, culturale, affettiva e
spirituale; l’Assemblea straordinaria del prossimo novembre, dedicata proprio
alla vita dei presbiteri, costituisce un’opportunità da preparare con
particolare attenzione.
Promuovete
la vita religiosa: ieri la sua identità era legata soprattutto alle opere, oggi
costituisce una preziosa riserva di futuro, a condizione che sappia
porsi come segno visibile, sollecitazione per tutti a vivere secondo il
Vangelo. Chiedete ai consacrati, ai religiosi e alle religiose di essere
testimoni gioiosi: non si può narrare Gesù in maniera lagnosa; tanto più che,
quando si perde l’allegria, si finisce per leggere la realtà, la storia e la
stessa propria vita sotto una luce distorta.
Amate con
generosa e totale dedizione le persone e le comunità: sono le vostre membra!
Ascoltate il gregge. Affidatevi al suo senso di fede e di Chiesa, che si
manifesta anche in tante forme di pietà popolare. Abbiate fiducia che il popolo
santo di Dio ha il polso per individuare le strade giuste. Accompagnate con
larghezza la crescita di una corresponsabilità laicale; riconoscete spazi di
pensiero, di progettazione e di azione alle donne e ai giovani: con le loro
intuizioni e il loro aiuto riuscirete a non attardarvi ancora su una pastorale
di conservazione – di fatto generica, dispersiva, frammentata e poco influente
– per assumere, invece, una pastorale che faccia perno sull’essenziale. Come
sintetizza, con la profondità dei semplici, Santa Teresa di Gesù Bambino:
“Amarlo e farlo amare”. Sia il nocciolo anche degli Orientamenti per
l’annuncio e la catechesi che affronterete in queste giornate.
Fratelli,
nel nostro contesto spesso confuso e disgregato, la prima missione ecclesiale
rimane quella di essere lievito di unità, che fermenta nel farsi prossimo e
nelle diverse forme di riconciliazione: solo insieme riusciremo – e questo è il
tratto conclusivo del profilo del Pastore – a essere profezia del Regno.
3. Pastori
di una Chiesa anticipo e promessa del Regno
A questo
proposito, chiediamoci: Ho lo sguardo di Dio sulle persone e sugli eventi? “Ho
avuto fame…, ho avuto sete…, ero straniero…, nudo…, malato…, ero in carcere” (Mt
25,31-46): temo il giudizio di Dio? Di conseguenza, mi spendo per spargere con
ampiezza di cuore il seme del buon grano nel campo del mondo?
Anche qui,
si affacciano tentazioni che, assommate a quelle su cui già ci siamo
soffermati, ostacolano la crescita del Regno, il progetto di Dio sulla famiglia
umana. Si esprimono sulla distinzione che a volte accettiamo di fare tra “i
nostri” e “gli altri”; nelle chiusure di chi è convinto di averne abbastanza
dei propri problemi, senza doversi curare pure dell’ingiustizia che è causa di
quelli altrui; nell’attesa sterile di chi non esce dal proprio recinto e non
attraversa la piazza, ma rimane a sedere ai piedi del campanile, lasciando che
il mondo vada per la sua strada.
Ben altro è
il respiro che anima la Chiesa. Essa è continuamente convertita dal Regno che
annuncia e di cui è anticipo e promessa: Regno che è e che viene, senza
che alcuno possa presumere di definirlo in modo esauriente; Regno che
rimane oltre, più grande dei nostri schemi e ragionamenti, o che – forse più
semplicemente – è tanto piccolo, umile e nascosto nella pasta dell’umanità,
perché dispiega la sua forza secondo i criteri di Dio, rivelati nella croce del
Figlio.
Servire il
Regno comporta di vivere decentrati rispetto a se stessi, protesi all’incontro
che è poi la strada per ritrovare veramente ciò che siamo: annunciatori della
verità di Cristo e della sua misericordia. Verità e misericordia: non
disgiungiamole. Mai! “La carità nella verità – ci ha ricordato Papa Benedetto XVI – è la principale forza
propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera” (Enc. Caritas in veritate, 1). Senza la
verità, l’amore si risolve in una scatola vuota, che ciascuno riempie a propria
discrezione: e “un cristianesimo di carità senza verità può venire facilmente
scambiato per una riserva di buoni sentimenti, utili per la convivenza sociale,
ma marginali”, che in quanto tali non incidono sui progetti e sui processi di
costruzione dello sviluppo umano (ibid., 4).
Con questa
chiarezza, fratelli, il vostro annuncio sia poi cadenzato sull’eloquenza dei
gesti. Mi raccomando: l’eloquenza dei gesti.
Come
Pastori, siate semplici nello stile di vita, distaccati, poveri e
misericordiosi, per camminare spediti e non frapporre nulla tra voi e gli
altri.
Siate
interiormente liberi, per poter essere vicini alla gente, attenti a impararne
la lingua, ad accostare ognuno con carità, affiancando le persone lungo le
notti delle loro solitudini, delle loro inquietudini e dei loro fallimenti:
accompagnatele, fino a riscaldare loro il cuore e provocarle così a
intraprendere un cammino di senso che restituisca dignità, speranza e fecondità
alla vita.
Tra i
“luoghi” in cui la vostra presenza mi sembra maggiormente necessaria e
significativa – e rispetto ai quali un eccesso di prudenza condannerebbe
all’irrilevanza – c’è innanzitutto la famiglia. Oggi la comunità
domestica è fortemente penalizzata da una cultura che privilegia i diritti
individuali e trasmette una logica del provvisorio. Fatevi voce convinta di
quella che è la prima cellula di ogni società. Testimoniatene la centralità e
la bellezza. Promuovete la vita del concepito come quella dell’anziano.
Sostenete i genitori nel difficile ed entusiasmante cammino educativo. E non
trascurate di chinarvi con la compassione del samaritano su chi è ferito negli
affetti e vede compromesso il proprio progetto di vita.
Un altro
spazio che oggi non è dato di disertare è la sala d’attesa affollata di disoccupati:
disoccupati, cassintegrati, precari, dove il dramma di chi non sa
come portare a casa il pane si incontra con quello di chi non sa come mandare
avanti l’azienda. E’ un’emergenza storica, che interpella la responsabilità
sociale di tutti: come Chiesa, aiutiamo a non cedere al catastrofismo e alla
rassegnazione, sostenendo con ogni forma di solidarietà creativa la fatica di
quanti con il lavoro si sentono privati persino della dignità.
Infine, la
scialuppa che si deve calare è l’abbraccio accogliente ai migranti:
fuggono dall’intolleranza, dalla persecuzione, dalla mancanza di futuro.
Nessuno volga lo sguardo altrove. La carità, che ci è testimoniata dalla generosità
di tanta gente, è il nostro modo vivere e di interpretare la vita: in forza di
questo dinamismo, il Vangelo continuerà a diffondersi per attrazione.
Più in
generale, le difficili situazioni vissute da tanti nostri contemporanei, vi
trovino attenti e partecipi, pronto a ridiscutere un modello di sviluppo che
sfrutta il creato, sacrifica le persone sull’altare del profitto e crea nuove
forma di emarginazione e di esclusione. Il bisogno di un nuovo umanesimo è
gridato da una società priva di speranza, scossa in tante sue certezze
fondamentali, impoverita da una crisi che, più che economica, è culturale,
morale e spirituale.
Considerando
questo scenario, il discernimento comunitario sia l’anima del percorso di
preparazione al Convegno ecclesiale nazionale di Firenze nel prossimo anno:
aiuti, per favore, a non fermarsi sul piano – pur nobile – delle idee, ma
inforchi occhiali capaci di cogliere e comprendere la realtà e, quindi, strade
per governarla, mirando a rendere più giusta e fraterna la comunità degli
uomini.
Andate
incontro a chiunque chieda ragione della speranza che è in voi: accoglietene la
cultura, porgetegli con rispetto la memoria della fede e la compagnia della
Chiesa, quindi i segni della fraternità, della gratitudine e della solidarietà,
che anticipano nei giorni dell’uomo i riflessi della Domenica senza tramonto.
Cari
fratelli, è grazia il nostro convenire di questa sera e, più in generale, di
questa vostra assemblea; è esperienza di condivisione e di sinodalità; è motivo
di rinnovata fiducia nello Spirito Santo: a noi cogliere il soffio della sua
voce per assecondarlo con l’offerta della nostra libertà.
Vi
accompagno con la mia preghiera e la mia vicinanza. E voi pregate per me,
soprattutto alla vigilia di questo viaggio che mi vede pellegrino ad Amman,
Betlemme e Gerusalemme a 50 anni dallo storico incontro tra Papa Paolo VI e il
Patriarca Atenagora: porto con ma la vostra vicinanza partecipe e
solidale alla Chiesa Madre e alle popolazioni che abitano la terra benedetta in
cui Nostro Signore è vissuto, morto e risorto. Grazie.
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