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Dal Vangelo di domenica 5 giugno |
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06-06-2016 |
In
quel tempo, Gesù si recò in una città chiamata Nain, e con lui
camminavano i suoi discepoli e una grande folla.
Quando
fu vicino alla porta della città, ecco, veniva portato alla tomba un
morto, unico figlio di una madre rimasta vedova; e molta gente della
città era con lei.
Vedendola, il Signore fu preso da grande
compassione per lei e le disse: «Non piangere!». Si avvicinò e
toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse: «Ragazzo,
dico a te, àlzati!». Il morto si mise seduto e cominciò a parlare.
Ed egli lo restituì a sua madre. (Lc 7,11-15)
E'
una scena molto commovente, che ci mostra la compassione di Gesù per
chi soffre - in questo caso una vedova che ha perso l'unico
figlio - e ci mostra anche la potenza di Gesù sulla morte.
La
morte è un'esperienza che riguarda tutte le famiglie, senza
eccezione alcuna. Fa parte della vita; eppure, quando tocca gli
affetti familiari, la morte non riesce mai ad apparirci naturale. Per
i genitori, sopravvivere ai propri figli è qualcosa di
particolarmente straziante, che contraddice la natura elementare dei
rapporti che danno senso alla famiglia stessa. La perdita di un
figlio o di una figlia è come se fermasse il tempo: si apre una
voragine che inghiotte il passato e anche il futuro. La morte, che
porta via il figlio piccolo o giovane, è uno schiaffo alle promesse,
ai doni e sacrifici d'amore gioiosamente consegnati alla vita che
abbiamo fatto nascere. Tante volte vengono a Messa a Santa Marta
genitori con la foto di un figlio, di una figlia, bambino, ragazzo,
ragazza, e mi dicono: "Se ne è andato, se ne è andata". E lo
sguardo è tanto addolorato. La morte tocca e quando è un figlio
tocca profondamente. Tutta la famiglia rimane come paralizzata,
ammutolita. E qualcosa di simile patisce anche il bambino che rimane
solo, per la perdita di un genitore, o di entrambi. Quella domanda:
"Ma dov'è il papà? Dov'è la mamma?" - Ma è in cielo"
- "Ma perché non lo vedo?". Questa domanda copre un'angoscia
nel cuore del bambino che rimane solo. Il vuoto dell'abbandono che
si apre dentro di lui è tanto più angosciante per il fatto che non
ha neppure l'esperienza sufficiente per "dare un nome" a quello
che è accaduto. "Quando torna il papà? Quando torna la mamma?".
Cosa rispondere quando il bambino soffre? Così è la morte in
famiglia.
In
questi casi la morte è come un buco nero che si apre nella vita
delle famiglie e a cui non sappiamo dare alcuna spiegazione. E a
volte si giunge persino a dare la colpa a Dio. Ma quanta gente - io
li capisco - si arrabbia con Dio, bestemmia: "Perché mi hai tolto
il figlio, la figlia? Ma Dio non c'è, Dio non esiste! Perché ha
fatto questo?". Tante volte abbiamo sentito questo. Ma questa
rabbia è un po' quello che viene dal cuore del dolore grande; la
perdita di un figlio o di una figlia, del papà o della mamma, è un
grande dolore. Questo accade continuamente nelle famiglie. In questi
casi, ho detto, la morte è quasi come un buco. Ma la morte fisica ha
dei "complici" che sono anche peggiori di lei, e che si chiamano
odio, invidia, superbia, avarizia; insomma, il peccato del mondo che
lavora per la morte e la rende ancora più dolorosa e ingiusta. Gli
affetti familiari appaiono come le vittime predestinate e inermi di
queste potenze ausiliarie della morte, che accompagnano la storia
dell'uomo. Pensiamo all'assurda "normalità" con la quale, in
certi momenti e in certi luoghi, gli eventi che aggiungono orrore
alla morte sono provocati dall'odio e dall'indifferenza di altri
esseri umani. Il Signore ci liberi dall'abituarci a questo!
Nel
popolo di Dio, con la grazia della sua compassione donata in Gesù,
tante famiglie dimostrano con i fatti che la morte non ha l'ultima
parola: questo è un vero atto di fede. Tutte le volte che la
famiglia nel lutto - anche terribile - trova la forza di
custodire la fede e l'amore che ci uniscono a coloro che amiamo,
essa impedisce già ora, alla morte, di prendersi tutto. Il buio
della morte va affrontato con un più intenso lavoro di amore. "Dio
mio, rischiara le mie tenebre!", è l'invocazione della liturgia
della sera. Nella luce della Risurrezione del Signore, che non
abbandona nessuno di coloro che il Padre gli ha affidato, noi
possiamo togliere alla morte il suo "pungiglione", come diceva
l'apostolo Paolo (1
Cor
15,55); possiamo impedirle di avvelenarci la vita, di rendere vani i
nostri affetti, di farci cadere nel vuoto più buio.
In
questa fede, possiamo consolarci l'un l'altro, sapendo che il
Signore ha vinto la morte una volta per tutte. I nostri cari non sono
scomparsi nel buio del nulla: la speranza ci assicura che essi sono
nelle mani buone e forti di Dio. L'amore è più forte della morte.
Per questo la strada è far crescere l'amore, renderlo più solido,
e l'amore ci custodirà fino al giorno in cui ogni lacrima sarà
asciugata, quando «non ci sarà più la morte, né lutto, né
lamento, né affanno» (Ap
21,4). Se ci lasciamo sostenere da questa fede, l'esperienza del
lutto può generare una più forte solidarietà dei legami
famigliari, una nuova apertura al dolore delle altre famiglie, una
nuova fraternità con le famiglie che nascono e rinascono nella
speranza. Nascere e rinascere nella speranza, questo ci dà la fede.
Ma io vorrei sottolineare l'ultima frase del Vangelo che oggi
abbiamo sentito (cfr Lc
7,11-15). Dopo che Gesù riporta alla vita questo giovane, figlio
della mamma che era vedova, dice il Vangelo: "Gesù lo restituì a
sua madre". E questa è la nostra speranza! Tutti i nostri cari che
se ne sono andati, il Signore ce li restituirà e noi ci incontreremo
insieme a loro. Questa speranza non delude! Ricordiamo bene questo
gesto di Gesù: "E Gesù lo restituì a sua madre", così farà
il Signore con tutti i nostri cari nella famiglia!
Questa
fede ci protegge dalla visione nichilista della morte, come pure
dalle false consolazioni del mondo, così che la verità cristiana
«non rischi di mischiarsi con mitologie di vario genere», cedendo
ai riti della superstizione, antica o moderna» (Benedetto XVI) Oggi
è necessario che i Pastori e tutti i cristiani esprimano in modo più
concreto il senso della fede nei confronti dell'esperienza
famigliare del lutto. Non si deve negare il diritto al pianto -
dobbiamo piangere nel lutto -, anche Gesù «scoppiò in pianto» e
fu «profondamente turbato» per il grave lutto di una famiglia che
amava (Gv
11,33-37). Possiamo piuttosto attingere dalla testimonianza semplice
e forte di tante famiglie che hanno saputo cogliere, nel durissimo
passaggio della morte, anche il sicuro passaggio del Signore,
crocifisso e risorto, con la sua irrevocabile promessa di
risurrezione dei morti. Il lavoro dell'amore di Dio è più forte
del lavoro della morte. E' di quell'amore, è proprio di
quell'amore, che dobbiamo farci "complici" operosi, con la
nostra fede! E ricordiamo quel gesto di Gesù: "E Gesù lo restituì
a sua madre", così farà con tutti i nostri cari e con noi quando
ci incontreremo, quando la morte sarà definitivamente sconfitta in
noi. Essa è sconfitta dalla croce di Gesù. Gesù ci restituirà in
famiglia a tutti!
(papa
Francesco)
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