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Io, oncologa con il cancro, dico no all'eutanasia (2007) PDF Stampa
07-03-2017
Sylvie Menard - oncologa, laica, ha cambiato idea sull'eutanasia

Era un giorno di aprile del 2005. La dottoressa Sylvie Menard, 57 anni, direttore del Dipartimento di oncologia sperimentale all'Istituto dei Tumori di Milano, era alla mensa. D'improvviso un capogiro, uno svenimento. Nulla di grave, forse il bicchiere d'acqua troppo fredda che aveva appena bevuto. Comunque, i colleghi le impongono di fare un esame del sangue. Lei è tranquilla. La sua salute è ottima. Ma i risultati della elettroforesi rivelano un picco altissimo di immunoglobuline. Un esito che si spiega solo in un modo, e quel modo, un'oncologa come la Menard lo conosce benissimo. «Era il 26 aprile. Quel giorno, la donna che ero stata fino ad allora è morta. L'esame segnalava un tumore del midollo, un tumore non guaribile. A casa mi sono guardata allo specchio: impossibile, mi dicevo, io sto benissimo. Sono riuscita a addormentarmi solo quando mi sono convinta che, certamente, si trattava di un errore».

Sylvie Menard oggi (2008) ha 60 anni. Il viso abbronzato sopra il camice bianco, è al suo posto, all'Istituto dei tumori. Sembra stare benissimo, ma è costantemente in terapia. Quell'esame, non era un errore. Il cancro c'era, e di quelli per cui non c'è ancora una cura risolutiva. Sono stati tre anni di una battaglia, che continua. Sylvie Menard lavora, e fa una vita normale. Ciò che è cambiato, dice, è il suo sguardo sulla vita. Parigina, cresciuta nella Sorbona del 1968, arrivò in Italia con il matrimonio. Dal '69 in via Venezian, allieva di Umberto Veronesi, è, dice, laica e non credente. Del suo maestro ha condiviso l'impostazione filosofica. E sull'eutanasia, è sempre stata d'accordo con lui. Fino a quando non si è trovata dall'altra parte della barricata. Malata, e di quale malattia. Allora verità e valori sono stati rivoluzionati. Tutto è cambiato: «Io, sono nata di nuovo».

La scossa è stata terribile, un terremoto. Un oncologo non può illudersi, sa. E davanti a quella prognosi, il medico che per tutta la vita ha parlato di cancro si trova sbalordito e spiazzato: il nemico, ora, è addosso. «Ho conosciuto la impossibilità, d'un tratto, di fare qualsiasi progetto. Come avere davanti un muro. Il futuro, semplicemente non c'era più. Ho smesso di mettere nuove piante in giardino. Tanto, dicevo, non le vedrò crescere».

Scopre cos'è l'attesa di una diagnosi, quando il paziente sei tu. «Il terribile tempo dell'attesa», lo chiama. Quando aspetti l'esito di una biopsia, e non pensi più a nient'altro: «Fissi il telefono, aspetti, prigioniero di una ossessione». Capisce cos'è, essere come bloccati in un limbo, quando sai che il male cammina, ma ancora non ti puoi curare. A casa, l'angoscia dei familiari. Al lavoro, i colleghi. Quelli che vengono a dirti semplicemente: conta su di me. Ma anche quelli che se ti intravvedono in fondo al corridoio svoltano l'angolo. «Ho scoperto che esiste ancora una parola tabù. È la parola cancro. C'è chi ha paura di te, come se fossi contagioso».

E quando dopo venti lunghissimi giorni la terapia può partire, come con una improvvisa ribellione dice di no. Che non vuole curarsi. «Era maggio, i primi caldi. Avevo voglia di vivere quell'estate. Perché curarmi, se tanto non posso guarire ? Avevo voglia di restare ancora fra i sani'. E' un'altra notte difficile. («Quando hai un cancro - dice - quello che conta sono le notti»). Ma il giorno dopo sceglie: farà la terapia. 'Qualcosa in me ha reagito. Anche senza guarire, prolungare la vita di qualche anno, improvvisamente mi è diventato fondamentale, volevo vivere fino in fondo».
Una metamorfosi attraversa la dottoressa. 'E' cambiata la consapevolezza della vita stessa. Quando sei sano, pensi di essere immortale. Quando invece la tua fine non è più virtuale, la prospettiva si capovolge. Io, il testamento biologico, da sana, lo avrei sottoscritto. Ora no. Quando hai un cancro, diventi un'altra persona, e ciò che pensavi prima non è più vero. Ciò che da sani non si capisce, è che i pazienti sono una popolazione diversa. Anche io, prima, parlavo di «dignità della vita», una dignità che mi sembrava intaccata in certe condizioni di malattia. Da sani si pensa che dovere essere lavati e imboccati sia intollerabile, 'indegno'. Quando ci si ammala, si accetta anche di vivere in un polmone di acciaio. Ciò che si vuole, è vivere. Non c'è nulla di indegno in una vita totalmente dipendente dagli altri. E' indegno piuttosto chi non riesce a vederne la dignità».

Nel tunnel della chemioterapia la Menard vede tutte le certezze della sua vita smentite dalla forza della concreta realtà. Guarda con altri occhi al dibattito sull'eutanasia. Pensa a Eluana, la ragazza da molti anni in stato vegetativo che il padre vorrebbe lasciare morire. «Ma lo sappiamo, che quella ragazza non ha nessuna spina da staccare? Che l'ipotesi è quella di lasciarla morire di fame e di disidratazione? Sappiamo che 'stato vegetativo permanente' non vuole dire che non c'è nessuna attività cerebrale? In un lavoro scientifico recente è stato dimostrato che se si mette davanti agli occhi di uno di questi malati una fotografia di persone care, e si fa una risonanza magnetica, si vede l'accensione di una attività cerebrale. Come si può decidere di sospendere l'alimentazione?».

Nelle parole della Menard ritrovi quella strana discrasia che noti sempre fra la realtà delle corsie e il dibattito pubblico sulla eutanasia. Dove la «morte dignitosa» è un «diritto». Nella realtà dolente dei reparti terminali, i malati invece vogliono vivere. Sylvie Menard: «Il favore di tanti all'eutanasia si spiega con una sorta di inconscio esorcismo, un volere allontanare da sé la possibilità della malattia e del dolore. È una mancanza di immedesimazione nel malato. Perché, quando poi ti ci trovi, cambi idea» Ciò che domandano davvero i malati, dice la Menard, è di non soffrire. 'Deve essere fatto tutto il possibile, contro il dolore. E in questo in Italia siamo indietro. Bisogna insegnare ai medici a usare gli oppiacei, e a non lasciare un paziente nella sofferenza per la paura di usare questi farmaci.

La vera battaglia, dice, è contro il dolore. Non per una morte che, nella esperienza amplissima dell'Istituto dei Tumori, i malati «veri» non chiedono. Chiedono, invece di non essere abbandonati. 'Temo che l'eutanasia possa essere la logica avanzante, se di tanti malati, quando muoiono, si dice solo: finalmente', dice la Menard. «In Olanda - aggiunge - ci sono 10 mila malati che chiedono l'eutanasia all'anno. L'80 per cento sono malati di cancro, assistiti nel migliore dei modi dal punto di vista medico. E allora, mi domando, come mai tante richieste? Ho il dubbio che sia perché è gente sola, che avverte attorno una tacita pressione a levare il disturbo. Che avverte che, mentre viene ottimamente curata, la sua presenza è ormai di troppo. Che, se muoiono, qualcuno dirà: finalmente. E allora si adeguano, e obbediscono». Ha ricominciato a curare le sue piante. I colleghi le hanno regalato una giovanissima quercia. E' lì nel vaso accanto alla scrivania. Ha, dice, «una nuova gerarchia di valori». Vola a Parigi, per ogni festa di famiglia, non se ne perde più una. La domenica si siede a contemplare il suo giardino. Le pare bellissimo, e bellissima ogni mattina, qualunque numero ne resti. Ogni giorno da vivere, nessuno da sprecare.

2017

Oncologa, ricercatrice ed ex allieva del professor Veronesi, per anni è stata favorevole all'eutanasia. Poi è arrivata la malattia. Cosa è cambiato?

La malattia cambia la nostra visione della vita. La morte non è più virtuale ma diventa reale. Non ci sentiamo più immortali e siamo obbligati a fermarci e a riflettere. Mi sono resa conto che la vita non è infinita e per questo è diventata più bella, perché sono consapevole che ogni giorno potrebbe essere l'ultimo. Ora, pur di guadagnare un giorno di vita, sono pronta a fare qualsiasi terapia. Per morire c'è sempre tempo.

Quindi oggi, da laica, dice no all'eutanasia. Perché?
Ho fatto il ‘68 sulle barricate a Parigi. Il nostro motto era "proibito proibire". Per me la libertà è una cosa importantissima. Ma la mia libertà non deve togliere la libertà agli altri. In uno Stato dove l'eutanasia è permessa, sarà difficile, per chi è contrario e vuole vivere, continuare a chiedere assistenza e cure senza farsi condizionare dalla società circostante. Lo sforzo che deve fare il sistema sanitario per fornire assistenza ai malati rischia di rallentare, favorendo la scelta del paziente di morire, qualora l'assistenza fosse ritenuta insufficiente.

Recentemente ha detto che sarebbe un errore assumere come vincolanti le Disposizioni Anticipate di Trattamento sottoscritte da sani...
Da sani, ci si sente immortali. La morte è un problema degli altri. Nessuno vuole immaginarsi come sarebbe la propria vita in condizioni di grave disabilità. Ci fa paura, e se vediamo disabili gravi, spesso pensiamo che non avremmo il coraggio di vivere come loro. Ma, al contrario, ci sono molti disabili che accettano la loro condizione e che la vivono con grande coraggio. Ho conosciuto malati gravi felici di vivere. Le stesse persone che, da sane, non avrebbero mai pensato di poter vivere così. Ho conosciuto tanti malati che inizialmente rifiutavano le terapie, ma che poi le hanno accettate, appena hanno accettato la loro malattia. Il fattore "tempo" è importantissimo. Il testamento biologico avrebbe senso se si sapesse a priori come ci sentiremo da malati, o se non fossimo più in grado di intendere e di volere. Rischia di essere controproducente nel caso in cui qualche erede in attesa della casa della mamma faccia valere queste disposizioni anche in caso di un po' di demenza senile.

Ci sono stati casi in cui chi ha sottoscritto il testamento biologico ci ha ripensato?
C'è stato il caso emblematico, riportato dai giornali, di un malato terminale che aveva disposto di non voler essere rianimato in caso di bisogno. Una notte il paziente ha suonato ripetutamente il campanello delle urgenze per chiamare il medico rianimatore. Quando il medico è arrivato, però, il paziente aveva già perso conoscenza e l'infermiere, nel rispetto del suo testamento biologico, ha impedito al dottore di rianimarlo. Chi ha ragione in questo caso? Le volontà scritte anticipatamente dal paziente hanno prevalso sulla effettiva volontà del paziente. Tra i casi più frequenti che mi sono trovata davanti ci sono poi quelli dell'iniziale rifiuto delle terapie. Nella maggioranza dei casi, il paziente cambia idea e accetta il trattamento.

Cosa pensa del caso di dj Fabo?
È un caso tragico. Lui era disperato. Ma è compito dello Stato aiutare le persone disperate a morire? Non è solo la malattia a condurci alla disperazione. Anche un fallimento amoroso o economico possono portare al suicido. Ce ne sono ben 12mila l'anno. Ma a nessuno viene in mente di aiutare queste persone a morire senza soffrire, casomai li aiutiamo a vivere. Vorrei che non venisse mai utilizzato il concetto di "morte degna", come se ci fosse una vita "non degna" di essere vissuta perché si è malati.

Quindi secondo lei l'Italia non dovrebbe garantire ai malati il diritto di poter decidere di mettere fine alla propria esistenza?
Io credo che la cosa più importante sia che lo Stato fornisca la massima assistenza ai malati gravi. Un'indagine fatta in Svizzera sui pazienti che hanno chiesto l'eutanasia mostra che, più della malattia stessa, è la solitudine il fattore preponderante che spinge il paziente a chiedere di morire. Oggi, con la terapia del dolore, l'eventuale ricorso alla sedazione più o meno profonda, il problema di morire nel dolore non esiste più.

Come giudica la proposta di legge sul testamento biologico attualmente in discussione in Parlamento?
Penso che creerà più problemi di quelli che vuole risolvere. Innanzitutto, il testamento biologico sarà valido solo per le persone non più in grado di intendere e di volere. Ad essere coinvolte saranno quindi anche tutte le persone con demenza senile e malattia di Alzheimer, un milione circa, in Italia. Quante di queste rischieranno di morire per una semplice influenza, solo perché hanno sottoscritto il testamento biologico pensando ai malati in stato vegetativo? Le informazioni di cui dispongono le persone per scrivere le disposizioni anticipate di trattamento sono approssimative, se non false: non esiste il "coma permanente", non c'è "dolore" in caso di incoscienza o per lo meno non è valutabile. Il caso di dj Fabo, infine, non sarebbe stato comunque contemplato in questa proposta di legge.
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