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A 40 anni dal sequestro Moro PDF Stampa
21-03-2018
Agnese Moro e Adriana Faranda - faccia a faccia tra la figlia dello statista Aldo Moro e l'ex brigatista (da Avvenire 16 marzo, 40 anni dopo)

Agnese e Adriana. La vittima e il carnefice. Eppure quando le vedi, le senti, è la prima ad apparire la più forte. Come quando Agnese Moro accarezza Adriana Faranda, quasi per sostenerla, per sostenere parole difficili. La figlia del presidente della Dc, rapito dalle Brigate rosse quaranta anni fa e l'ex brigatista fianco a fianco. L'occasione è un incontro nella chiesa romana di San Gregorio al Celio, per raccontare l'esperienza del gruppo sulla giustizia riparativa, promosso da padre Guido Bertagna, del quale Agnese e Adriana fanno parte, assieme ad altre vittime e altri ex esponenti della lotta armata. Si parla del loro incontro, del loro dialogo. Ma il dramma di quei 55 giorni del 1978 emerge continuamente.
Agnese ricorda «l'uccisione di cinque brave persone che proteggevano mio padre, il suo rapimento, un lungo periodo di angoscia, di disumanità non solo in coloro che avevano commesso questi atti ma anche in coloro che avrebbero dovuto aiutare mio padre ad uscire da quella situazione. E poi la sua morte e tutto quello che è seguito. Alla fine c'è una grande assenza, una persona per te cara, indispensabile, che non c'è più». Anche Adriana ricorda. «Quando è stato ucciso il papà di Agnese, mi sono sentita responsabile in pieno di quella morte ma ero assolutamente contraria al fatto che venisse ucciso e l'ho vissuta come una delle cose più atroci che stavano avvenendo».
Poi il carcere e un percorso per un'altra forma di giustizia. «Per me Agnese era il suo avvocato di parte civile che voleva dimostrare che io ero la persona più orribile che fosse mai nata sulla terra. Non potevo in quel momento e in nessun modo arrivare ad Agnese, era assolutamente impossibile perchè dovevo solo difendermi e cercare di affermare la dignità di un percorso che avevo scelto. Quando poi alla fine riconquisti la libertà, ti rendi conto che quella del carcere è una forma di giustizia ma incompleta. A me non bastava. Quello che sentivo come dovere e anche come desiderio era affrontare fino in fondo il problema della giustizia ritrovando le persone che erano state colpite, andando a cercare l'altro che avevamo negato».
È lo stesso cammino di Agnese cominciato proprio 40 anni fa. «La mia vita è rimasta bloccata tra il 16 marzo e il 9 maggio 1978, sei sempre lì. E non perché te lo ricordi, ma perché ogni giorno risuccede. E questa dittatura del passato ti isola perché pensi che nessuno ti potrebbe mai capire. Hai dentro un urlo che non riesce a uscire, ti soffoca. Alla fine tutto fa sì che i morti abbiano più spazio dei vivi, di quelli che stanno intorno a te, di quelli che ami. E ti accorgi drammaticamente che il male non rimane lì. Va avanti finchè qualcuno non lo fermerà, perché crea altre situazioni di sofferenza. E tutto si accompagna a sentimenti di rancore, di rabbia, anche di senso di colpa perché mio padre non è stato abbattuto un giorno uscendo di casa. È stato lì tanti giorni e io non sono riuscita a salvarlo. E assieme c'è un desiderio di giustizia ». Che non sono gli anni di carcere. «Non si sta meglio. È un'illusione. Potevano dargli 100mila anni di carcere e non si sarebbe risolto il problema perché tu hai bisogno di avere una giustizia che riguardi anche le ferite che hai ricevuto. E che non sono facilissime da curare».
E allora, Agnese, la giustizia sta provando a costruirla proprio insieme ai responsabili della morte del padre. «Sono stati una sorpresa perché nella mia mente loro sono dei mostri senza cuore, senza pietà. E lo sono anche stati». Ma, aggiunge, «le persone non rimangono uguali, non è che se tu hai fatto delle cose orrende poi per sempre dovrai essere una persona orrenda. Dentro queste persone c'è qualcosa di diverso da quello che io pensavo ». In particolare scoprire «un dolore infinitamente peggiore del mio, perché è quello di chi l'ha fatta grossa e non può rimediare. E che li fa essere totalmente disarmati nei nostri confronti. Per me Adriana è l'emblema della persona disarmata (le sorride e l'accarezza, ndr) perché io avrei potuto fare o dire qualsiasi cosa e l'avrebbe accettata, non perché sono delle pecore ma perché sono disarmate di fronte a me.
E imparare a disarmarsi è stata per me la grande lezione di questo stare insieme. Ho imparato da loro che se tu vuoi ascoltare qualcuno e poi parlare ti devi disarmare da pregiudizi e rabbia». E Adriana conferma, piegata sul microfono e dai ricordi. «Io sono sempre disarmata rispetto a qualunque parola, al tocco di Agnese che nel momento in cui sembra spaccarti in due il cuore costruisce un ponte, ti tende sempre la mano. Questa è una delle cose più importanti che ho vissuto in questo percorso estremamente duro in cui ci siamo messi a nudo gli uni nei confronti degli altri». Con una certezza. «Che quelle cose che venivano dette con forza nei momenti di maggiore emotività e dolore non erano per tagliarti fuori ma per stimolare una maggiore profondità, intensità, autenticità dell'incontro che stavamo vivendo». In «un'atmosfera di quotidianità, come se fosse naturale che persone vittime di tragedie così irreparabili potessero convivere lavando i piatti insieme a chi aveva prodotto questo disastro».
E così, sottolinea Agnese, «il passato arretra e viene sostituito da un presente che è fatto dai loro volti, delle nostre discussioni e tu sei più libero. Così quel male che ti ha portato via qualcuno, e di cui delle persone sono state interpreti ma che esiste a prescindere da loro, non ha l'ultima parola perché le loro vite sono ritornate delle vite buone perché c'è la possibilità di ricostruire. Per me è l'unica forma di vera giustizia: tu male che hai preso mio padre in maniera così terribile, non vincerai per sempre perché oggi siamo qui insieme, siamo amici, ci occupiamo gli uni degli altri e questo guarirà qualcosa».
Un'esperienza che Adriana cala nel presente. «Se siamo riusciti a dialogare noi, può riuscirci chiunque e può riuscirci prima che sia necessario perché altrimenti ci ritroveremo con altre espressioni di violenza che non saranno paragonabili a quelle dei nostri anni, ma potranno assumere altri volti». Ma, avverte Agnese, «bisogna recuperare nella vita quotidiana, nella politica, la fiducia nella forza della parola. Noi non abbiamo fatto altro che accettare di stare seduti in una stanza e parlarci, anche dirci cose odiose. Le parole cambiano le vite, cambiano le persone».
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