Agnese
Moro e Adriana Faranda - faccia a faccia tra la figlia dello
statista Aldo Moro e l'ex brigatista (da
Avvenire 16 marzo, 40 anni dopo)
Agnese e Adriana. La vittima e il
carnefice. Eppure quando le vedi, le senti, è la prima ad apparire
la più forte. Come quando Agnese Moro accarezza Adriana Faranda,
quasi per sostenerla, per sostenere parole difficili. La figlia del
presidente della Dc, rapito dalle Brigate rosse quaranta anni fa e
l'ex brigatista fianco a fianco. L'occasione è un incontro nella
chiesa romana di San Gregorio al Celio, per raccontare l'esperienza
del gruppo sulla giustizia riparativa, promosso da padre Guido
Bertagna, del quale Agnese e Adriana fanno parte, assieme ad altre
vittime e altri ex esponenti della lotta armata. Si parla del loro
incontro, del loro dialogo. Ma il dramma di quei 55 giorni del 1978
emerge continuamente.
Agnese ricorda «l'uccisione di
cinque brave persone che proteggevano mio padre, il suo rapimento, un
lungo periodo di angoscia, di disumanità non solo in coloro che
avevano commesso questi atti ma anche in coloro che avrebbero dovuto
aiutare mio padre ad uscire da quella situazione. E poi la sua morte
e tutto quello che è seguito. Alla fine c'è una grande assenza,
una persona per te cara, indispensabile, che non c'è più». Anche
Adriana ricorda. «Quando è stato ucciso il papà di Agnese, mi sono
sentita responsabile in pieno di quella morte ma ero assolutamente
contraria al fatto che venisse ucciso e l'ho vissuta come una delle
cose più atroci che stavano avvenendo».
Poi il carcere e un percorso per
un'altra forma di giustizia. «Per me Agnese era il suo avvocato di
parte civile che voleva dimostrare che io ero la persona più
orribile che fosse mai nata sulla terra. Non potevo in quel momento e
in nessun modo arrivare ad Agnese, era assolutamente impossibile
perchè dovevo solo difendermi e cercare di affermare la dignità di
un percorso che avevo scelto. Quando poi alla fine riconquisti la
libertà, ti rendi conto che quella del carcere è una forma di
giustizia ma incompleta. A me non bastava. Quello che sentivo come
dovere e anche come desiderio era affrontare fino in fondo il
problema della giustizia ritrovando le persone che erano state
colpite, andando a cercare l'altro che avevamo negato».
È lo stesso cammino di Agnese
cominciato proprio 40 anni fa. «La mia vita è rimasta bloccata tra
il 16 marzo e il 9 maggio 1978, sei sempre lì. E non perché te lo
ricordi, ma perché ogni giorno risuccede. E questa dittatura del
passato ti isola perché pensi che nessuno ti potrebbe mai capire.
Hai dentro un urlo che non riesce a uscire, ti soffoca. Alla fine
tutto fa sì che i morti abbiano più spazio dei vivi, di quelli che
stanno intorno a te, di quelli che ami. E ti accorgi drammaticamente
che il male non rimane lì. Va avanti finchè qualcuno non lo
fermerà, perché crea altre situazioni di sofferenza. E tutto si
accompagna a sentimenti di rancore, di rabbia, anche di senso di
colpa perché mio padre non è stato abbattuto un giorno uscendo di
casa. È stato lì tanti giorni e io non sono riuscita a salvarlo. E
assieme c'è un desiderio di giustizia ». Che non sono gli anni di
carcere. «Non si sta meglio. È un'illusione. Potevano dargli
100mila anni di carcere e non si sarebbe risolto il problema perché
tu hai bisogno di avere una giustizia che riguardi anche le ferite
che hai ricevuto. E che non sono facilissime da curare».
E allora, Agnese, la giustizia sta
provando a costruirla proprio insieme ai responsabili della morte del
padre. «Sono stati una sorpresa perché nella mia mente loro sono
dei mostri senza cuore, senza pietà. E lo sono anche stati». Ma,
aggiunge, «le persone non rimangono uguali, non è che se tu hai
fatto delle cose orrende poi per sempre dovrai essere una persona
orrenda. Dentro queste persone c'è qualcosa di diverso da quello
che io pensavo ». In particolare scoprire «un dolore infinitamente
peggiore del mio, perché è quello di chi l'ha fatta grossa e non
può rimediare. E che li fa essere totalmente disarmati nei nostri
confronti. Per me Adriana è l'emblema della persona disarmata (le
sorride e l'accarezza, ndr)
perché io avrei potuto fare o dire qualsiasi cosa e l'avrebbe
accettata, non perché sono delle pecore ma perché sono disarmate di
fronte a me.
E imparare a disarmarsi è stata per
me la grande lezione di questo stare insieme. Ho imparato da loro che
se tu vuoi ascoltare qualcuno e poi parlare ti devi disarmare da
pregiudizi e rabbia». E Adriana conferma, piegata sul microfono e
dai ricordi. «Io sono sempre disarmata rispetto a qualunque parola,
al tocco di Agnese che nel momento in cui sembra spaccarti in due il
cuore costruisce un ponte, ti tende sempre la mano. Questa è una
delle cose più importanti che ho vissuto in questo percorso
estremamente duro in cui ci siamo messi a nudo gli uni nei confronti
degli altri». Con una certezza. «Che quelle cose che venivano dette
con forza nei momenti di maggiore emotività e dolore non erano per
tagliarti fuori ma per stimolare una maggiore profondità, intensità,
autenticità dell'incontro che stavamo vivendo». In «un'atmosfera
di quotidianità, come se fosse naturale che persone vittime di
tragedie così irreparabili potessero convivere lavando i piatti
insieme a chi aveva prodotto questo disastro».
E così, sottolinea Agnese, «il
passato arretra e viene sostituito da un presente che è fatto dai
loro volti, delle nostre discussioni e tu sei più libero. Così quel
male che ti ha portato via qualcuno, e di cui delle persone sono
state interpreti ma che esiste a prescindere da loro, non ha l'ultima
parola perché le loro vite sono ritornate delle vite buone perché
c'è la possibilità di ricostruire. Per me è l'unica forma di
vera giustizia: tu male che hai preso mio padre in maniera così
terribile, non vincerai per sempre perché oggi siamo qui insieme,
siamo amici, ci occupiamo gli uni degli altri e questo guarirà
qualcosa».
Un'esperienza che Adriana cala nel
presente. «Se siamo riusciti a dialogare noi, può riuscirci
chiunque e può riuscirci prima che sia necessario perché altrimenti
ci ritroveremo con altre espressioni di violenza che non saranno
paragonabili a quelle dei nostri anni, ma potranno assumere altri
volti». Ma, avverte Agnese, «bisogna recuperare nella vita
quotidiana, nella politica, la fiducia nella forza della parola. Noi
non abbiamo fatto altro che accettare di stare seduti in una stanza e
parlarci, anche dirci cose odiose. Le parole cambiano le vite,
cambiano le persone».
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