Nel
Vangelo odierno ritorna più volte il verbo
vedere:
«I discepoli gioirono al
vedere
il Signore»; poi dissero a Tommaso: «Abbiamo
visto
il Signore». Ma il Vangelo non descrive
come
lo videro, non descrive il Risorto, evidenzia solo un particolare:
«Mostrò loro le mani e il fianco». Sembra volerci dire che i
discepoli hanno riconosciuto Gesù così: attraverso le sue piaghe.
La stessa cosa è accaduta a Tommaso: anch'egli voleva
vedere
«nelle sue mani il segno dei chiodi» e dopo aver
veduto
credette.
Nonostante
la sua incredulità, dobbiamo ringraziare Tommaso, perché non si è
accontentato di sentir dire dagli altri che Gesù era vivo, e nemmeno
di vederlo in carne e ossa, ma ha voluto
vedere
dentro, toccare con mano le
sue piaghe, i segni del suo amore. Il Vangelo chiama Tommaso
«Didimo», cioè
gemello,
e in questo è veramente nostro fratello gemello. Perché anche a noi
non basta sapere che Dio c'è: non ci riempie la vita un Dio
risorto ma lontano; non ci attrae un Dio distante, per quanto giusto
e santo. No: abbiamo anche noi bisogno di "vedere Dio", di
toccare con mano che è risorto, e risorto per noi.
Come
possiamo vederlo? Come i discepoli: attraverso le sue piaghe.
Guardando lì, essi hanno compreso che non li amava per scherzo e che
li perdonava, nonostante tra loro ci fosse chi l'aveva rinnegato e
chi l'aveva abbandonato. Entrare nelle sue piaghe è contemplare
l'amore smisurato che sgorga dal suo cuore. Questa è la strada. È
capire che il suo cuore batte per me, per te, per ciascuno di noi.
Cari fratelli e sorelle, possiamo ritenerci e dirci cristiani, e
parlare di tanti bei valori della fede, ma, come i discepoli, abbiamo
bisogno di vedere Gesù
toccando
il suo amore. Solo così
andiamo al cuore della fede e, come i discepoli, troviamo una pace e
una gioia più forti di ogni dubbio.
Tommaso,
dopo aver visto le piaghe del Signore, esclamò: «Mio Signore e mio
Dio!». Vorrei attirare l'attenzione su quell'aggettivo che
Tommaso ripete:
mio.
È un aggettivo possessivo e, se ci riflettiamo, potrebbe sembrare
fuori luogo riferirlo a Dio: come può Dio essere mio? Come posso
fare mio l'Onnipotente? In realtà, dicendo
mio
non profaniamo Dio, ma
onoriamo la sua misericordia, perché è Lui che ha voluto "farsi
nostro". E come in una storia di amore, gli diciamo: "Ti sei
fatto uomo
per me,
sei morto e risorto
per me
e allora non sei solo Dio; sei il
mio
Dio, sei
la
mia vita. In te ho trovato
l'amore che cercavo e molto di più, come non avrei mai
immaginato".
Dio
non si offende a essere "nostro", perché l'amore chiede
confidenza, la misericordia domanda fiducia. Già al principio dei
dieci comandamenti Dio diceva: «Io sono il Signore,
tuo
Dio» e ribadiva: «Io, il
Signore,
tuoDio,
sono un Dio geloso». Ecco la proposta di Dio, amante geloso che si
presenta come
tuo Dio.
E dal cuore commosso di Tommaso sgorga la risposta: «
Mio
Signore e mio Dio!». Entrando
oggi, attraverso le piaghe, nel mistero di Dio, capiamo che la
misericordia non è una sua qualità tra le altre, ma il palpito del
suo stesso cuore. E allora, come Tommaso, non viviamo più da
discepoli incerti, devoti ma titubanti; diventiamo anche noi veri
innamorati del Signore! Non dobbiamo avere paura di questa parola:
innamorati
del Signore.
Come
assaporare questo amore, come toccare oggi con mano la misericordia
di Gesù? Ce lo suggerisce ancora il Vangelo, quando sottolinea che
la sera stessa di Pasqua, cioè appena risorto, Gesù, per prima
cosa, dona lo Spirito per
perdonare
i peccati. Per sperimentare
l'amore bisogna passare da lì: lasciarsi perdonare. Lasciarsi
perdonare. Domando a me e a ognuno di voi: io mi lascio perdonare?
Per sperimentare quell'amore, bisogna passare da lì. Io mi lascio
perdonare? "Ma, Padre, andare a confessarsi sembra difficile...".
Di fronte a Dio, siamo tentati di fare come i discepoli nel Vangelo:
barricarci a porte chiuse. Essi lo facevano per timore e noi pure
abbiamo timore, vergogna di aprirci e dire i peccati. Che il Signore
ci dia la grazia di comprendere
la
vergogna, di vederla non come
una porta chiusa, ma come il primo passo dell'incontro. Quando
proviamo vergogna, dobbiamo essere grati: vuol dire che non
accettiamo il male, e questo è buono. La vergogna è un invito
segreto dell'anima che ha bisogno del Signore per vincere il male.
Il dramma è quando non ci si vergogna più di niente. Non abbiamo
paura di provare vergogna! E passiamo dalla vergogna al perdono! Non
abbiate paura di vergognarvi! Non abbiate paura.
C'è
invece una porta chiusa davanti al perdono del Signore, quella della
rassegnazione.
La rassegnazione sempre è una porta chiusa. L'hanno sperimentata i
discepoli, che a Pasqua constatavano amaramente come tutto fosse
tornato come prima: erano ancora lì, a Gerusalemme, sfiduciati; il
"capitolo Gesù" sembrava finito e dopo tanto tempo con Lui nulla
era cambiato, rassegniamoci. Anche noi possiamo pensare: "Sono
cristiano da tanto, eppure in me non cambia niente, faccio sempre i
soliti peccati". Allora, sfiduciati, rinunciamo alla misericordia.
Ma il Signore ci interpella: "Non credi che la mia misericordia è
più grande della tua miseria? Sei recidivo nel peccare? Sii recidivo
nel chiedere misericordia, e vedremo chi avrà la meglio!". E poi -
chi conosce il Sacramento del perdono lo sa - non è vero che tutto
rimane come prima. Ad ogni perdono siamo rinfrancati, incoraggiati,
perché ci sentiamo ogni volta più amati, più abbracciati dal
Padre. E quando, da amati, ricadiamo, proviamo più dolore rispetto a
prima. È un dolore benefico, che lentamente ci distacca dal peccato.
Scopriamo allora che la forza della vita è ricevere il perdono di
Dio, e andare avanti, di perdono in perdono. Così va la vita: di
vergogna in vergogna, di perdono in perdono. Questa è la vita
cristiana.
Dopo la vergogna e la rassegnazione, c'è
un'altra porta chiusa, a volte blindata:
il
nostro peccato, lo stesso
peccato. Quando commetto un peccato grande, se io, in tutta onestà,
non voglio perdonarmi, perché dovrà farlo Dio? Questa porta, però,
è serrata solo da una parte, la nostra; per Dio non è mai
invalicabile. Egli, come insegna il Vangelo, ama entrare proprio "a
porte chiuse" - l'abbiamo sentito -, quando ogni varco sembra
sbarrato. Lì Dio opera meraviglie. Egli non decide mai di separarsi
da noi, siamo noi che lo lasciamo fuori. Ma quando ci confessiamo
accade l'inaudito: scopriamo che proprio quel peccato, che ci
teneva distanti dal Signore, diventa il luogo dell'incontro con
Lui. Lì il Dio ferito d'amore viene incontro alle nostre ferite. E
rende le nostre misere piaghe simili alle sue piaghe gloriose. C'è
una trasformazione: la mia misera piaga assomiglia alle sue piaghe
gloriose. Perché Egli è misericordia e opera meraviglie nelle
nostre miserie. Come Tommaso, chiediamo oggi la grazia di riconoscere
il nostro Dio: di trovare nel suo perdono la nostra gioia, di trovare
nella sua misericordia la nostra speranza.