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Terremoto Irpinia: Relazioni di comunità, oltre le macerie PDF Stampa
27-11-2020
24 Novembre 2020

Nel 40° anniversario del terremoto e in piena emergenza pandemia, l’esperienza e lo stile dei gemellaggi Caritas rimangono segni ed esempi di fraternità e solidarietà

Il 23 novembre del 1980 un terremoto sconvolse una vasta area, tra Campania e Basilicata. L’area più colpita è nel cuore dell’Irpinia, in provincia di Avellino. “Quell’evento drammatico, le cui ferite anche materiali non sono ancora del tutto rimarginate – ha ricordato papa Francesco ieri all’Angelus – ha evidenziato la generosità e la solidarietà degli italiani. Ne sono testimonianza tanti gemellaggi tra i paesi terremotati e quelli del nord e del centro, i cui legami ancora sussistono. Queste iniziative hanno favorito il faticoso cammino della ricostruzione e, soprattutto, la fraternità tra le diverse comunità della Penisola”.

A quaranta anni di distanza sono infatti ancora aperte le crepe di quel minuto e 20 secondi che ha seminato morte e distruzione, ma che nel contempo ha generato una straordinaria solidarietà e consentito alla Caritas di consolidare un nuovo modello di intervento.

Circa 3.000 morti, 9.000 feriti, 300.000 senza tetto: dietro queste cifre altrettante storie interrotte, lacerate, cambiate per sempre. I comuni danneggiati furono 280, i paesi rasi al suolo 36. Due le diocesi principalmente coinvolte (Avellino e Potenza), 29 quelle interessate. L’area colpita misurava 27 mila chilometri quadrati, tre volte quella del sisma in Friuli nel 1976. La positiva esperienza sperimentata proprio in occasione del terremoto del Friuli convinse Caritas Italiana a riproporre il metodo dei gemellaggi tra le diocesi italiane e le parrocchie terremotate, come strumento principale di prossimità e accompagnamento alle comunità colpite, allo scopo di assicurare sostegno morale e materiale per tutto il tempo dell’emergenza acuta e della ricostruzione. Ben 132 diocesi aderirono alla proposta di gemellaggio, con il fondamentale apporto di volontari e obiettori di coscienza. Un’esperienza storica di presenza e di scambio fra Nord, Centro e Sud Italia, destinata a ripetersi, quantomeno in ambito ecclesiale, in occasione delle catastrofi collettive nei decenni successivi. Una presenza che diventò forte stimolo: per la chiesa italiana a proseguire nell’opera di solidarietà con le popolazioni colpite; per le istituzioni ad impegnarsi fattivamente nella ricostruzione e nella prevenzione.

Un segno tangibile di quella “fraternità aperta,…amore che va al di là delle barriere della geografia e dello spazio” che papa Francesco richiama nella recente Enciclica “Fratelli tutti”.

Ma anche un segno di speranza, uno stile di presenza, rapporto umano, comunione ecclesiale, condivisione delle difficoltà. Un invito a immergersi nelle sofferenze e nei problemi di ogni comunità e di ogni persona, difendendone con coraggio i valori, la dignità e i diritti, per ripartire insieme. Tanto più oggi, nell’emergenza della pandemia che ha colpito non soltanto le singole persone e le loro famiglie, ma tutte le comunità, da Nord a Sud, a partire dai luoghi di aggregazione. Cogliamo allora questo tempo di prova come un’opportunità. Per ribadire e testimoniare concretamente che senza una visione d’insieme non ci sarà futuro per nessuno.
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