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Quale la via della felicità? PDF Stampa
Il 12 dicembre 2005 il gruppo culturale, in collaborazione con l'azione cattolica parrocchiale, ha organizzato una serata di approfondimento sul tema Quale la via della felicità?Tra relativismo e senso del mistero. Per l'occasione è intervenuto il prof. Maurizio Malaguti, docente presso il dipartimento di Filosofia della Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Bologna. Ecco una sintesi del suo prezioso contributo.

Quando si parla della felicità viene subito in mente qualcosa di molto prossimo e immediato, l'opposizione tra il piacere e il dolore. I bambini appena nati esprimono già il loro stare bene o stare male con il sorriso e con il pianto. Il rapporto a ciò che piace e a ciò che duole è assolutamente elementare e precede ogni riflessione filosofica. Perché parlarne allora? Una cosa è manifestare col pianto o con il riso il dolore o il piacere; altro è valutare cosa sia la vera felicità o come la si possa raggiungere.
L'umanità si affatica su questo problema da sempre. Alcuni filosofi del mondo antico, gli epicurei, pensavano che il problema della felicità si potesse risolvere tramite un ragionevole calcolo. Allora la felicità non era provare piacere, ma averlo già provato ed essere quindi già soddisfatti, in pace, trovarsi nella condizione di assenza di ogni turbamento, di atarassia, dunque una pace relativa. Ma questo calcolo per quanto intelligente e raffinato, non sembra destinato a dare veramente pienezza di senso al nostro desiderio di felicità. Infatti ci si chiede: E dopo? La risposta degli epicurei era: dopo il nulla, quando c'è la morte tutto finisce. Si fa un calcolo della propria vita per finire nel nulla. Se ci pensiamo, una simile prospettiva appare condivisibile anche oggi.
Ma è proprio vero che c'è il nulla dopo la morte? Supponiamo per assurdo che gli epicurei avessero ragione. Allora cosa sarebbe la nostra vita? Forse solo un'occasione per calcolare ciò che è utile o ciò che ci conviene per non essere turbati? Certamente no, c'è molto di più!
Ognuno di noi, ancora prima di poter parlare, dice sì e no a ciò che gli piace o gli dispiace; ognuno di noi è una voce che 'dice' un senso. Ora, se davvero nulla ha senso e se il nostro destino è ritornare là dove eravamo, cioè nel vuoto, quale contraddizione sarebbe divenire coscienza, farsi pensiero, voce che dice, per sapere, per dire poi che non c'è niente da dire!? Una contraddizione e una beffa, no? Se davvero nulla ha senso, perché allora siamo sorti a dire, a pensare, a sapere? Forse per dire, pensare e sapere che non c'è niente che ha definitivamente senso e che il silenzio originario dovrà ritornare?
Se ci pensiamo bene, il pensiero degli epicurei è ancora tra di noi. Quante volte avvertiamo dai giornali, dalla televisione, dalle conversazioni di tutti i giorni che veniamo dal nulla e che intanto occorre ritagliarsi una fettina di felicità, prendersi le cose che più ci convengono, possibilmente cercando di non offendere troppo chi ci è accanto.
Sempre nell'antichità c'erano degli altri filosofi che avevano un'opinione diversa, gli stoici. Erano molto orgogliosi, sdegnosi. Il senso della vita, la vera felicità stava nel capire, nell'intendere, nell'avere l'intelligenza del destino del mondo intero. Lo chiamavano il logos, la ragione universale. Chi la capiva, comprendeva che tutto è retto da un destino che non possiamo né favorire né contrastare. Il senso dell'esistenza era essenzialmente filosofico e si teneva al di fuori dalle questioni che possono dare piacere e dolore. La mente dello stoico andava molto oltre. Ma ci sono dei dolori che non si lasciano dominare da questa orgogliosa pretesa di intelligenza. E allora? Se arrivano dolori non dominabili da questa pretesa di distacco, gli stoici credevano che l'unica 'uscita di sicurezza' fosse il suicidio. Qui si vede la debolezza di una filosofia che pretende di annunciare la via di salvezza. La filosofia infatti non salva. La salvezza viene da una fonte molto più alta. Crediamo che la filosofia possa aprirsi ad una ragione alta più della sola ragione. Quando, però, da sola essa vuole dare risposte, immancabilmente fallisce e lo si vede in questi opposti versanti dell'antico pensiero in forme ancora molto vicine a noi.
C'è una frase di Dionigi Areopagita che dice: 'Gesù ci ha salvato dal nulla'. Non sappiamo chi sia Dionigi, né quando e dove sia vissuto. Evidentemente la sola cosa che gli importava era di affidare a tutti noi la sua esperienza. Egli dice che Gesù non permette che cadano nel nulla le cose che veramente sono, quelle che 'essenzialmente sono'. E quali sono? Le case, le montagne, le stelle? Ma i cieli e la terra passeranno, così ci viene detto. Allora chi realmente 'è' più di ogni cosa siamo proprio noi! Pur nella nostra fragilità, sappiamo di esistere. Le stelle, la luna, i monti no. Noi 'siamo veramente' perché siamo qui con una domanda: Da dove vengo e dove vado? Dio salva dal nulla, Gesù ci salva. Ma perché, Signore, ci salvi dal nulla?
Qui si aprono due strade e due atteggiamenti conseguenti: la prima, è quella di non pensare più e di lasciarsi vivere, di fare tutto come viene senza avere risposte. Inutile affaticarsi nel comprendere il mistero, tanto è un problema insolubile. Dunque meglio lasciar perdere. La seconda strada, invece, ci dice che il mistero non è un problema insolubile. Esso è piuttosto la presenza di un senso che noi non comprendiamo, ma di cui già ora viviamo. Tutti noi passiamo la nostra giornata nella luce del sole. Oggi l'istruzione ci dice molte cose sulla natura del sole, anche se non tutto. Ma gli uomini hanno goduto del sole anche molto tempo prima che si sapesse qualcosa di questa stella, e il loro abbronzarsi e riscaldarsi non era stato meno significativo del nostro perchè non avevano la spiegazione dei fenomeni.
Allo stesso modo il mistero non è un problema insolubile, ma una presenza di senso che non cogliamo pienamente. L'amore di un babbo e di una mamma nei confronti del figlio è per lui un mistero, perché ne fruisce ma non lo capisce; ma il fatto che non lo capisca non vuol dire che ne sia estraneo, al contrario ne vive! Gesù ci salva dal nulla! Anche se non riusciamo a coglierne la ragione, questo non vuol dire che essa non ci sia. Il mistero è una realtà di senso della quale noi non siamo ancora degni, occorre crescere. Non bisogna più pensare a Dio come il buon vecchio che ogni tanto lascia cadere le sue grazie come caramelle dal cielo e che prendiamo quando e come ci pare! Dio è il sole di cui noi viviamo, ma non possiamo entrare nel suo cuore perché nessuno può vedere Dio e rimanere in vita allo stesso tempo!Egli può venire a noi solo velandosi e a dosi. Se venisse con la sua onnipotenza ne resteremmo distrutti. Il velo ci consente di crescere.
Quando ci interroghiamo sul senso della nostra vita rimaniamo con un interrogativo senza risposta. Ma davvero non c'è un senso, o piuttosto siamo noi a non essere in grado di vederlo? Il bambino che nasce non conosce il senso della sua vita, eppure c'è e ne vive. Dio allora ci chiede un atto di fede. La fede non è credere a qualcosa contro la ragione, ma credere al di là della ragione, riconoscendo che la nostra natura e la nostra ragione non possono giungere fino al mistero di Dio, fino al Suo 'pensiero'. Credere vuol dire appartenere a ciò che ancora non ci è pienamente svelato, ma di cui già pregustiamo le primizie che annunciano la buona stagione. Fede è aspettare con fiducia di capire. Diciamo con Agostino che fede è 'aderere', cioè aderire, appartenere a Dio, anche se non lo si comprende. Dio è infinitamente grande. Egli mi ha voluto e mi ha voluto insieme a tutti gli altri, e mi ha voluto nel Suo stesso amore. Io sono il frutto di un Suo pensiero, intensissimamente attuale, presente, un solo pensiero per tutti. Ancora non vedo il senso della mia esistenza perché non sono abbastanza cresciuto, perché ancora non sono abbastanza grande… È come il sole: quando è notte non lo vedo, ma esso esiste comunque: Verrà l'alba!
Allora felicità è pensare che attraverso questa nostra fatica di vivere stiamo imparando un piccolo alfabeto per dire a Dio: 'Io credo, aderisco, ringrazio!' È come se Dio ci dicesse: 'Non sei ancora all'altezza di comprendere il senso di ciò che si produce in te. Attendi e saprai, perchè io sono l'Alfa e l'Omega, l'origine e il fine!'. Quello che è chiesto a noi, allora, è di avere fede senza rinunciare ad intendere, perché fede è aderire, partecipare e attendere soluzioni che potranno tardare, ma che sono già là!
 
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